Quando i tempi si fanno strambi anche gli strambi diventano professori.
Fra tutte le varie imprese che nel corso degli anni Ottanta e Novanta hanno spacciato lucciole per lanterne nel campo dell’arte, mi soffermerò su quella che va sotto il nome di Transavanguardia.
Ho incrociato Achille Bonito Oliva nel Lavatoio Contumaciale di Filiberto Menna a Roma in Piazza Perin del Vaga verso la metà degli anni Settanta.
Ho avuto il piacere di avere Menna come professore al corso di Istituzioni di Storia dell’Arte presso la Facoltà di Architettura a Roma. Di lui ricordo le conversazioni schiette ed appassionate su arte e filosofia. Ricordo i suoi saggi fra i quali il bellissimo “Mondrian, Cultura e Poesia”. Gli posso solo rimproverare di aver dato spazio ad un personaggio abile solo nell’imbastire giochi di parole, una delle tante figure di cartapesta che hanno occupato la scena artistica ufficiale dagli anni Ottanta in poi. I famigerati anni in cui è iniziato il declino non solo nel campo dell’arte..
Pochi forse sanno che l’Oliva tentò la via dell’arte.
Durante gli anni Sessanta il nostro viveva all’ombra di tutti i radicali cambiamenti avvenuti nel campo delle arti plastiche durante la prima metà del Novecento e, come tanti aspiranti artisti di quegli anni, era ossessionato dall’idea di dover fare a tutti i costi qualche cosa che venisse considerato all’avanguardia.
La via della gloria e del successo sembrava preclusa se non si fosse inventato qualche cosa che nessuno aveva fatto prima di loro. Come essere all’avanguardia nella seconda metà del Novecento tuttavia nessuno sapeva. In quegli anni l’Oliva si cimentava con la cosiddetta “poesia visiva”; strana cosa che non si è mai capito cosa fosse ed a che cosa servisse. Forse nemmeno lui l’ha mai capito, tanto è vero che l’ha ben presto abbandonata.
“Trovato il proprio linguaggio, l’artista si trova libero dalle fatiche dell’avanguardia.” (Melotti)
Il problema del nostro e di altri era che, malgrado tanti sforzi, un proprio linguaggio essi non riuscivano proprio a trovarlo. E fu così che, pensando e ripensando, il futuro professore trovò la soluzione: perché affannarsi tanto nel cercare di essere ciò che non ci riesce? Basta invertire i termini della questione e proclamare superata ogni avanguardia. In questo modo il prof. Oliva è riuscito a trasformare il suo malessere esistenziale in uno slogan che solo degli sprovveduti possono considerare un fenomeno degno di essere chiamato arte.
Un artista incapace si ricicla in “critico creativo”.
Ricordo l’Oliva, alla metà degli anni Settanta, seduto in un angolo del Lavatoio Contumaciale mentre fumava la pipa e probabilmente già rifletteva su possibili strategie. A quel tempo iniziava a diffondersi l’idea, d’importazione nord-americana, che una reiterata presenza nel circuito di alcuni musei, di certe gallerie e dei media bastasse per garantire successo. La mentalità era quella del grande fratello: metti uno sconosciuto tutte le sere in tv e dopo sei mesi diventa una star.
Il disorientamento nel quale viveva il pubblico che si avvicinava all’arte giocava a favore. Abbandonata l’idea di fare l’artista, l’Oliva scrisse libri per spiegarci che in verità il vero demiurgo non è l’artista bensì il critico d’arte. Escluso dal tempio dell’arte in veste di artista il nostro stava cercando di rientrarvi come “critico creativo”.
Il neolaureato prof. Oliva scrisse libri per dirci che occorreva recuperare la pittura.
“Dopo il periodo quaresimale dell’arte concettuale occorreva recuperare la manualità del fare pittura.”
Così diceva l’Oliva il quale, nel frattempo, per acquisire maggiore autorità e la sicurezza di una pensione, era diventato professore. In verità noi la pittura non l’avevamo mai dimenticata. Potevamo dunque riprendere e proseguire il cammino iniziato da Matisse e da Mondrian?
Macché.. La scoperta dell’Oliva aveva ben poco a che fare con la pittura e molto di più con l’arte di arrangiarsi. Forte di un sostegno economico, mediatico ed anche politico (il famigerato PSI degli anni Ottanta), l’Oliva mise insieme un gruppo di ragazzotti in cerca, come lui, di gloria e soprattutto di soldi. La ricetta era più o meno questa: un po’ di neo-espressionismo nostrano con contorno di metafisica in versione erotico sentimentale ed un tocco di scuola romana; il tutto servito su tele di grandi dimensioni. Si sa, per certa gente le dimensioni contano..
Dopo i radicali cambiamenti introdotti nell’arte del primo Novecento e soprattutto con l’evoluzione della pittura in senso astratto, il pubblico non sapeva più cosa fosse o non fosse arte. Bisognava orientarlo, consigliarlo e fargli credere che, malgrado tutto, qualche cosa di già visto (leggi: di comprensibile..) che non impegnasse troppo la mente e lo spirito, ancora esisteva e che, anzi, proprio quella era l’arte del nostro tempo. Ricordo le mostre a New York presso le gallerie di West Broadway, Madison Avenue, 57th Street ed i loro corrispondenti a Londra, Colonia, Parigi.
Si, perché nel frattempo si era creata una consorteria internazionale di gallerie e musei d’arte temporanea che, supportandosi a vicenda, riusciva ad influenzare la scena ufficiale e, soprattutto, a pilotarne il mercato. Così il povero Oliva ha potuto finalmente superare il funesto assillo dell’avanguardia, uscire dall’anonimato che tanto gli pesava e soprattutto incrementare il suo conto in banca. Di quei giorni ricordo anche le cene da Silvano’s sulla Sixth Avenue con Mary Boone seduta al tavolo di Leo Castelli che le palpava le cosce mentre lei gli spiegava i “programmi culturali” della sua galleria.
Il critico creativo riscopre la pittura.
La Transavanguardia fu una delle risposte escogitate dal”sistema dell’arte” come veniva chiamato dai suoi promotori, per rendere l’arte digeribile a potenziali acquirenti i quali presentavano profili culturalmente scarsi ma erano alla ricerca di prestigio. Essi non avrebbero saputo discernere le qualità di un dipinto ma tenevano molto al fatto che tutti potessero riconoscere a casa loro le opere che erano state viste nei musei, in televisione e sui rotocalchi.
Un ruolo fondamentale lo hanno avuto le gallerie nordamericane con la loro mentalità piuttosto grossolana. Ho vissuto a New York City dal 1980 al 1985. Un giorno una signora mi chiede che cosa io facessi e quando le dico che sono un pittore, lei domanda se io riesca a guadagnare bene con il mio lavoro; al mio diniego lei meravigliata fa: “..scusi.. ma allora perché dipinge?” Secondo questa mentalità noi non avremmo oggi i dipinti Impressionisti, Espressionisti, Cubisti, Neoplastici.
L’unica persona in vista che negli anni Ottanta a New York, pur partecipando al gran party dell’arte di far soldi, ne riconosceva l’inconsistenza, era Ileana Sonnabend, ex moglie di Leo Castelli la quale, in un incontro presso la sua galleria a West Broadway, mostrò apprezzamento per i miei acquerelli e poi, con un tono sincero che sembrava esprimere rammarico, mi disse che in quel momento lei era legata ad altri programmi e che non avrebbe potuto fare altro che ciò che stava facendo. Mi incoraggiò a proseguire ed a farmi rivedere. Io serbo un bel ricordo di quell’incontro.
Dei pittori della Transavanguardia oggi non si sente più parlare.
È comprensibile. Il loro scopo lo hanno raggiunto. La pittura non serve più. Anche in questo il nostro tempo non è poi così diverso dal tempo in cui a Monet, Cèzanne, Renoir, Van Gogh i saloni e la critica ufficiale preferivano les artistes pompiers, dei mediocri pittori, preoccupati di accontentare un pubblico di borghesi ignoranti. Pittori che non hanno lasciato nulla che valga oggi la pena di essere ricordato.
Negli anni seguenti il prof. Oliva ha organizzato una mostra con cui ricordare a noi tutti che lui è stato l’inventore del critico creativo; che grazie a lui il critico non è più sottomesso e non deve più solo spiegare l’arte fatta da altri. Riposino in pace tutti gli storici ed i critici d’arte che non avevano saputo sottrarsi alla tirannica egemonia degli artisti.
L’elogio dell’effimero.
Dice Cézanne: “Tutto quello che vediamo si dilegua. La natura è sempre la stessa ma nulla resta di essa, di ciò che appare. La nostra arte deve dare il brivido della sua durata, deve farcela gustare eterna.”
E dice Matisse: “Sotto il succedersi di momenti, che compone l’esistenza superficiale degli esseri e delle cose, rivestendole di apparenze mutevoli ben presto svanite, si può cercare un carattere più vero, più essenziale, cui l’artista si appiglierà per dare un’interpretazione più durevole della realtà”.
Più tardi Mondrian scriverà: “L’arte deve esprimere l’universale”.
L’Oliva crede, invece, che la vera finalità dell’arte sia l’effimero. Non essendo riuscito ad inventare nulla, il professore scrive “..nel passaggio da un’arte d’invenzione a un’arte di citazione, ovvero quando si perde fiducia nel futuro non c’è più una spinta, un ottimismo sperimentale, ecco che subentra la memoria, ripararsi dalla mancanza di futuro, rafforzando il presente, citando il passato.” Non è casuale che egli oggi sponsorizzi la pittura metafisica. In ciò gli si deve riconoscere coerenza poiché anche la pittura metafisica è reazione, conservazione ed incapacità di guardare avanti.
Caro prof. Oliva: chi non vede un futuro dovrebbe fare spazio a coloro i quali dimostrano delle capacità in tal senso.
Al tempo degli Impressionisti e di coloro i quali hanno saputo inventare qualche cosa di nuovo la mediocrità vi si opponeva con un’aperto ed acceso contrasto; oggi, invece, temendo di fare in quel modo pubblicità ai veri artisti, certi addetti ai lavori adottano una più “democratica” strategia dell’indifferenza.
“L’indifferenza è vigliaccheria, inettitudine, parassitismo. L’indifferente è il peso morto della storia”. (Antonio Gramsci)
Povero prof. Oliva il quale un tempo, quando andava di moda, si dichiarava marxista.