Molti credono oggi che per dirsi artisti sia sufficiente fare cose strane.
Gli sprovveduti non sanno che i maestri del movimento moderno, artefici – loro si – di un’autentica rivoluzione, non avevano alcuna intenzione di sbalordire e scandalizzare ed anzi si sono spesso prodigati nel cercare di spiegare il loro lavoro.
Dopo aver dipinto Les Demoiselles d’Avignon Pablo Picasso piegò la tela, la mise sotto al letto e fu sul punto di darle fuoco per riscaldarsi durante l’inverno. Tanti ignorano che le avanguardie del primo Novecento non nacquero da un vezzo di chi voleva ad ogni costo apparire originale, bensì da un sincero dettato interiore di chi avvertiva la necessità di trovare nuove forme espressive in grado di rappresentare più efficacemente un mondo che sotto i loro occhi stava cambiando. Di quel disinteressato e fecondo spirito innovatore tanti colgono oggi solo gli aspetti più superficiali.
Wassily Kandinsky, Paul Klee, Kasimir Malewitch, Piet Mondrian, inventori dell’arte nuova, hanno scritto saggi per spiegare il loro operato. Tuttavia, poiché agli occhi dei benpensanti i frutti del loro lavoro apparirono strambi, tanti oggi credono di potersi dire artisti facendo cose strambe. Gallerie e musei d’arte contemporanea si sono riempiti di cose stravaganti. Come se in questo modo si potesse misurare l’intelligente creatività di un artista. I luoghi dell’arte contemporanea sono diventati una sorta di lazzaretti in cui si assiste alle patetiche convulsioni di sterili menti in cerca di rapida notorietà.
E così, secondo alcuni l’arte contemporanea è: «Ragazze in caserma, pittori sott’acqua, specchi di marmo. Il bello dell’arte contemporanea è quello di minare alle fondamenta la logica delle convenzioni. In altre parole, sedurre con l’imprevisto e l’inaspettato. (…) » Così scriveva una certa Laura Larcan su La Repubblica recensendo alcune mostre in corso a Roma. Il mondo trabocca di cose strambe e quelli continuano a fare cose strambe. Sono pertanto dei conservatori e non i rivoluzionari innovatori che vorrebbero sembrare.
La vera sfida non sta oggi nell’escogitare continue provocazioni che sconvolgano il senso comune poiché esso viene oggi continuamente sovvertito dai fatti: nella vita sociale, politica, finanziaria. La vera sfida oggi non è più scandalizzare e distruggere come al tempo di DADA bensì progettare e costruire. E qui si rimane in pochi.
A volte per ritrovare l’eterna ed inesauribile fonte dalla quale nascono cose nuove bisogna tornare alle origini.
La storia insegna che in certi periodi innovare vuol dire saper proseguire sul cammino indicato dai predecessori. In passato ci sono stati artisti che hanno scompaginato una tradizione consolidata ed hanno aperto nuovi orizzonti; penso all’opera di Giotto, Masaccio, Piero della Francesca. A questi sono succeduti altri i quali hanno proseguito sulla strada tracciata da quelli sviluppandone in modo magistrale le premesse. Penso soprattutto a Raffaello, Tiziano, Tiepolo.
L’arte non vive di continui cambiamenti. Per essere all’altezza del compito non è sempre necessario stravolgere l’opera di chi ci ha preceduto se ciò che ci ha preceduto può essere ancora fonte di nuove e feconde sperimentazioni. A meno che non si voglia solo soddisfare il proprio piccolo ego e non già il progresso dell’arte e della cultura.
Se noi dovessimo applicare il criterio egocentrico di un permanente rifiuto dei predecessori, Raffaello avrebbe dovuto evitare l’opera del Perugino. Cézanne, il quale ha dato inizio alla più incisiva rivoluzione nel campo delle arti, andava al Louvre e per imparare “copiava” Poussin. Solo le menti deboli temono il confronto e non accolgono le eccellenze altrui. Forse anche perché non le sanno neppure riconoscere.
Un dilagante senso comune guidato da ignoranza, inabilità e malafede pensa invece che se vuoi apparire geniale oggi devi fare qualche cosa che nessuno abbia mai fatto prima di te ma, poiché fare qualche cosa di veramente nuovo non è poi così facile come tante testoline vuote pensano, la gran massa di aspiranti creatori finisce col proporre cose inconsistenti: “trovate e trovatine gabellate per lampi di genio” come dice Fausto Melotti.
La scena ufficiale, che non aveva capito il nuovo durante la prima metà del Novecento, fa di tutto oggi per sembrare aperta ad ogni sorta di novità. Cambiare sempre tutto affinché in realtà nulla cambi.
Quando fu necessario rinnovare linguaggi divenuti obsoleti ma così amati dalla borghesia del tempo, gli artisti che guardavano avanti furono ostacolati. Quando poi essi, attraverso l’arte, l’architettura e l’urbanistica, osarono ampliare lo sguardo prefigurando società più giuste ed equilibrate, la mano armata dei borghesi li bollò come “artisti degenerati”.
Nel secondo dopoguerra si tentò di riprendere un libero e fecondo sviluppo dell’arte ma furono in pochi a comprendere tutto ciò che era stato creato nel corso della prima metà del Novecento. Così, senza tener conto dell’immensa portata del nuovo e delle sue tante potenzialità ancora inespresse, tante menti superficiali pensarono che per fare dell’arte si dovesse continuare ad escogitare ogni sorta di “novità”.
La cosiddetta arte concettuale fu quella che sembrò spingersi al limite ma, proprio per questo, generò ulteriore disorientamento in un mercato dell’arte già confuso poiché risultava piuttosto difficile vendere un’idea in luogo di un manufatto.
La pittura non interessava più di tanto anche perché luoghi comuni inducevano a pensare che oltre il Quadrato Bianco su Bianco di Malewitch non si potesse più andare. Non si erano accorti che, dopo quel quadrato bianco, Broadway Boogie Woogie di Mondrian aveva riacceso la pittura con i colori più vivi del mondo in una magistrale composizione che ci racconta la natura e la vita ad un livello universale. Roba alquanto impegnativa, anche per gli addetti ai lavori.
I radicali cambiamenti introdotti nel campo delle arti plastiche durante la prima metà del Novecento avevano generato disorientamento in un pubblico che durante la seconda metà del secolo aumentava progressivamente di numero. Verso la fine degli anni Settanta iniziò ad essere chiaro che occorreva costruire un sistema in grado di gestire la crescente richiesta di arte ovviando alle difficoltà incontrate dal pubblico di fronte ad un nuovo ed impegnativo linguaggio pittorico.
Ci voleva un sistema che garantisse la produzione, distribuzione ed il consumo d’arte assicurando un florido tornaconto commerciale ma che nel contempo desse l’impressione di non essere sottoposto alle rigide regole del profitto, bensì aperto e disponibile ad ogni sorta di imprevedibile novità e che anzi facesse della continua novità la sua bandiera. Occorreva insomma incanalare l’arte su percorsi commercialmente promettenti e voluminosi mascherando tutto di continua ed irriverente trasgressione. “L’avanguardia come mestiere” per dirla ancora con Fausto Melotti.
Così nasce la restaurazione, camuffata da rivoluzione permanente, a cui si è dato il nome di “sistema dell’arte”.
Un sistema volto a recuperare e rinverdire un mercato disorientato. Un comitato d’affari apparentemente libero ed estraneo ad ogni schema preordinato ma in realtà ben congegnato per soddisfare voraci appetiti commerciali. Simili travestimenti di un capitalismo guidato da una borghesia decadente si sono espressi negli ultimi decenni anche nella vita sociale, politica, economica e soprattutto in quella finanziaria.
Oltre a curare gli interessi di mercanti, gallerie e musei, il sistema doveva sostenere un’economia che vive di mostre, pubblicazioni ed eventi con tutto l’indotto che vi ruota intorno (grafici, editori, stampatori, librerie, trasportatori, assicuratori, montatori, elettricisti, caffetterie, avvocati, commercialisti, pubblicitari, consulenti etc. etc.) il quale ha bisogno di fare cassa nel breve-medio periodo. Per tenere sotto controllo tutto ciò non si potevano attendere gli altalenanti umori e gli imprevedibili tempi dei veri artisti i quali per loro natura lavorano quasi sempre per il domani. Occorreva dunque allevare un gregge di personalità artistiche addomesticate alle odierne concrete esigenze del mercato.
“Dite ai giovani artisti che il mestiere di pittore non ha niente a che vedere col dilettantismo ed è assolutamente refrattario a storie di moda, di bluff o di speculazione.” (Matisse)
Ciò che oggi viene proposto dal “sistema dell’arte” presso musei e gallerie di arte contemporanea è in gran parte moda, bluff e speculazione. E come già in passato, gli ambienti influenti della scena ufficiale indicano strade mentre, ancora una volta, lontano dai riflettori l’arte se ne va silenziosa per la sua strada.
“L’arte è una religione, il suo scopo è elevare il pensiero.” (Cézanne)
Invece di elevare il pubblico all’arte, direttori, curatori e multinazionali della cultura hanno ridotto l’arte ufficiale al minimo comune denominatore; per non perdere audience, vendere opere, cataloghi e biglietti d’ingresso ai musei. Si è voluto trasformare l’arte in una serie di eventi alla portata di tutti e questo non è certo sbagliato, ma lo si è fatto a scapito della qualità e della sostanza.
La reiterata presenza nei circuiti espositivi e mediatici riesce nella titanica impresa di trasformare qualsiasi cosa in “opera d’arte”.
La notevole capacità del “sistema dell’arte” non sta nell’individuare e proporre opere d’arte quanto, invece, nel far credere che una qualsiasi cosa sia arte. Questi piazzisti della cultura riescono ad ottenere un simile risultato servendosi di eventi finalizzati a suscitare clamore ed interesse intorno ad un oggetto che, ad occhi esperti, può risultare del tutto insignificante.
Da ciò il ruolo del cosiddetto “critico creativo” che deve costruire sinergie con musei, gallerie e soprattutto con i media allo scopo di generare l’illusione di un valore dove valore non c’è. Purtroppo tutto ciò non si può dimostrare perché l’arte non è matematica e se non hai a disposizione i potenti e convincenti megafoni del circo mediatico, le tue ragioni – per quanto fondate e sostanziali – non hanno alcun peso.
Credo che strategie del genere siano in gran parte riconducibili ad una certa mentalità nord-americana dove spesso il valore delle cose viene proclamato a gran voce da chi le propone fino a diventare credibile alle orecchie di chi ascolta.
Mi venne da sorridere un giorno a New York udendo il discorso dell’allora sindaco, Ed Koch, il quale, presentando ad un gruppo di residenti il restaurato piccolo parco di Madison Square (un modesto giardino al crocevia fra avenues e strade), diceva trattarsi del più bel parco del mondo. Chissà se il sindaco aveva mai visto le Tuilleries, il Tiergarten o Hyde Park. In una terra che ha meno di trecento inverni, dove le coordinate culturali sono molteplici ma non stratificate da una lunga storia, il campo è libero per chi riesce a far credere che le proprie merci siano le migliori al mondo.
Land of opportunities dicevano un tempo gli emigranti che tentavano la fortuna negli States. Ebbene, perché non fare così anche con l’arte? Non sarà poi così difficile considerando il livello culturale degli odierni magnati disposti ad investire i loro soldi nell’arte.
Durante gli ultimi due decenni del Novecento il mercato dell’arte si è trasformato in arte di fare mercato.
Si diceva della capacità del cosiddetto “sistema dell’arte” di generare valore dove valore non c’è. Se io metto un oggetto qualsiasi in un noto museo e se riesco ad ottenere il megafono di giornali, radio e televisioni, tanti finiranno per credere che quell’oggetto debba avere un certo valore. Qui sta il genio creativo dei notabili dell’arte contemporanea.
Quintessenza del capitalismo: non si tratta più solo di generare plus-valore da un valore precedentemente accertato quanto, invece, di attribuire valore ad una testa di cavallo, ad un pesce imbalsamato o ad una banana, vale a dire, al nulla per poi riuscire a venderla a caro prezzo. Qui sta il genio creativo. E c’è anche chi, per carenza di sale in zucca o per malafede, arriva a dire che tali operazioni abbiano lo scopo di suscitare nel pubblico delle riflessioni sull’arte.
In questa sagra dell’inutile furbo l’operazione più raffinata è certamente quella orchestrata sotto la sigla “bansky”. Altre opere di aria fritta si sono susseguite dagli inizi degli anni Ottanta in poi con sigle quali “neue wilden”, “arte povera”, “transavanguardia”, “iperrealismo” etc. etc.
L’obbiettivo principale del sistema dell’arte è stato proporre cose apparentemente sontuose e facilmente digeribili per un potenziale bacino di acquirenti che nel frattempo non erano più i collezionisti intelligenti, colti e lungimiranti della prima metà del Novecento che scoprivano talenti sconosciuti che sarebbero poi diventati i Matisse ed i Picasso, bensì dei nuovi ricchi piuttosto ignoranti ma avidi di oggetti ben riconoscibili. Come degli abiti firmati, grazie al marchio di facile ed immediata riconoscibilità apposto da certi musei e mezzi d’informazione i quali partecipano alla festa con un loro preciso tornaconto.
Mercanti, faccendieri, direttori, curatori e sedicenti artisti recitano, più o meno consapevolmente, la parte degli anticonformisti per dissimulare una subdola obbedienza ad un sistema finalizzato solo a far parlare di sé e dei suoi adepti. Una volta si giudicavano gli artisti dalle opere che realizzavano; oggi si valutano le opere in base al clamore mediatico che l’artista di turno ed i suoi protettori riescono a sollevare. Non è importante che cosa tu faccia ma che di noi si parli. D’altronde, se le opere non dicono nulla, di qualche cosa bisognerà pur parlare.
Le consorterie euro-statunitensi hanno così dato l’avvio ad un’industria che, senza più dover aspettare gli imponderabili tempi dell’arte, decidesse preventivamente che cosa doveva essere considerato arte. Ciò avrebbe consentito di investire garantendo un ritorno sicuro. Un libero mercato dell’arte interessato alla qualità e rivolto ad un pubblico attento, stava così diventando arte di fare mercato per chiunque avesse capitali da investire.
Per i nord-americani, figli di emigranti in cerca di fortuna, il successo commerciale è di per sé una delle più apprezzate e rispettate forme di creatività. Non disponendo di adeguati criteri qualitativi, essi identificano il valore di un dipinto con il prezzo a cui lo si vende e più si riesce a racimolare, più esso diventa un’importante opera d’arte. Arte di sbarcare il lunario.
L’arte – quella vera -, come è sempre accaduto negli ultimi centoventi anni, può attendere.